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Mercati azionari ai massimi e tassi in salita: il mantra “Don’t fight the FED!“ ha ancora senso?

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Se i mercati azionari sono ai massimi e contemporaneamente i rendimenti dei Treasury a 10yr sono in sensibile rialzo, ci si domanda da più parti se il mantra Don’t fight the Fed! Abbia ancora un senso.

Diversi indici borsistici occidentali hanno segnato nuovi record questa settimana, sostenuti dagli utili societari e dalle promesse dell’intelligenza artificiale.

Tuttavia, le notizie sul fronte dei prezzi negli Stati Uniti non sono delle migliori: l’inflazione e i prezzi alla produzione di gennaio sono stati ancora troppo alti per sostenere le speranze di un rapido taglio dei tassi.

Negli ultimi 2 mesi il mercato obbligazionario e quello azionario hanno avuto andamenti opposti, perché l’indice SP500 è salito da 4700 a 5040 (+7%), mentre i tassi sulle obbligazioni a 10yr sono saliti di 50 punti base da 7,85% a 4,35%, con una perdita di 5% in conto capitale.

I mercati azionari quotano l’attualizzazione degli utili futuri, in funzione della convenienza di un investitore di acquistare azioni invece che titoli del tesoro.

Quindi i parametri da valutare sono utili e tassi di interesse; quindi, di conseguenza la capacità delle aziende di far crescere gli utili e la capacità della FED di tenere sotto controllo l’inflazione per fare in modo che i tassi d’interesse siano bassi.

L’inflazione è tornata sotto controllo rispetto ai parametri della FED?

Nell’ultima rilevazione, relativa al mese di gennaio, l’indice dei prezzi al consumo (CPI) negli U.S.A. ha fatto registrare un +3,9% annualizzato rispetto al +3,7% previsto.

La Core Inflation, cioè il tasso di crescita dei prezzi al consumo al netto di cibo ed energia è stata addirittura superiore sia alle aspettative (2% contro 1,6% annualizzato), sia al valore del mese precedente (1,7% rivisto) ha rinnovato le preoccupazioni.

I prezzi all’ingrosso sono aumentati più del previsto a gennaio, complicando ulteriormente il quadro dell’inflazione.

L’indice dei prezzi alla produzione è aumentato dello 0,3% nel mese, il rialzo più forte da agosto, mentre il consensus si aspettava un rialzo di 0,1%.

L’IPP è sceso dello 0,2% a dicembre. Il Producer Price Index core è aumentato dello 0,5%, rispetto ad un’aspettativa di un rialzo di 0,1%. Il Producer Price Index al netto dei servizi alimentari, energetici e commerciali è salito dello 0,6%, il più grande incremento in un mese da gennaio 2023.

La prossima scadenza sarà il 29 febbraio, con la pubblicazione del PCE Core, l’indicatore dell’andamento dei prezzi preferito dai membri della Fed.

Il motore dell’inflazione è sicuramente a crescita dei salari, che continua ad aggirarsi attorno al 4% su base annua, ma un’ulteriore spinta ad una piccola ripresa dell’inflazione potrebbe venire anche dai prezzi del petrolio che nell’ultima settimana sono stati in leggera salita, il Brent europeo è salito a 83 dollari, mentre il WTI americano è salito a 78 dollari al barile.

Questo si è verificato nonostante fattori negativi, come il rafforzamento del dollaro americano e l’aumento considerevole delle scorte settimanali negli U.S.A.

Le previsioni sul petrolio sono piuttosto discordanti, perché l’OPEC e l’AIE non hanno modificato le loro previsioni di crescita della domanda mondiale di petrolio.

Il cartello è ancora molto ottimista sullo stato della domanda, mentre l’AIE lo è molto meno e prevede un rallentamento.

JP Morgan prevede che il prezzo del petrolio WTI sarà in media di 83 dollari al barile nel 2024. Questa previsione si inserisce nell’ambito delle aspettative di cambiamento della dinamica del mercato petrolifero, in cui cominciano a pesare anche i rialzi dei noli marittimi per il blocco del Mar Rosso e del Canale di Suez.

Più favorevole è la previsione per il 2025, con un calo previsto a 75 dollari al barile JPMorgan indica l’aumento della produzione da parte di diversi Paesi come la forza trainante dell’aumento dell’offerta.

In particolare, si prevede che Stati Uniti, Canada, Guyana e Brasile aumenteranno la loro produzione di petrolio, contribuendo all’aumento complessivo dell’offerta globale.

Il mantra “Don’t fight the FED! ha ancora senso?

Don’t fight the Fed! Ci si chiede chi stia ancora prestando attenzione ai tassi di interesse.

Dall’inizio dell’anno, il rendimento a 10 anni negli Stati Uniti è passato dal 3,78% al 4,33% della scorsa settimana.

Senza alcun impatto sui principali indici dei mercati azionari, che hanno segnato nuovi massimi storici. Alla quotazione attuale di 5000, l’indice SP500 quota con un P/E forward di 20,4 su un utile di consenso di $ 245, il tasso di crescita degli utili stimato (anno su anno) per fine 2024 è dell’17,4%, superiore al tasso di crescita degli utili medio (annuale) sugli ultimi 10 anni pari all’8,4% (2013 – 2022).

Il rapporto P/E a 12 mesi per l’S&P 500 è 20,4. Questo rapporto P/E è superiore alla media quinquennale (19,0) e superiore alla media decennale (17,7).

L’ottimismo degli investitori sulla crescita degli utili è molto alto, mentre la reporting season si avvicina al gran finale con i risultati trimestrali di Nvidia il 21 febbraio.

I numeri del mercato azionario sono più che buoni a livello assoluto, ma se si confronta l’earnings yield (cioè, l’inverso del P/E) di 4,86% dell’indice SP500 col rendimento di 4.33% dei Treasury Notes a 10yr, si vede che c’è un premio per il rischio nell’investire in azioni di appena 50 punti base.

Questo rende meno interessante il mercato azionario per gli investitori di lungo termine come i Fondi Pensione, che si basano su sistemi quantitativi per fare la loro asset allocation.

Nel breve l’eccitazione dei mercati azionari per la nuova tecnologia dell’Artificial Intelligence ha messo da parte il mantra Don’t fight the Fed!, ma nel medio termine la situazione rischia di diventare insostenibile, quindi il rialzo del mercato azionario è legato solo alla possibilità che si verifichi almeno uno di questi 2 fattori: ribasso dei tassi di interesse sui Treasury Notes 10yr di almeno un punto oppure una crescita degli utili per fine 2024 che sia il doppio delle aspettative di consensus, cioè almeno un 25% rispetto ad un’attesa di 11%.

Il ribasso dei tassi di un 1% è diventato poco probabile dopo i dati sull’inflazione e allora le speranze del mercato sono tutte concentrate sul potenziale di crescita che deriverà dall’Artificial Intelligence.

L’impressione è, come spesso accade, i prezzi delle azioni legate all’intelligenza artificiale si siano mosse “too far, too fast”, per usare un’espressione del gergo di Wall Street.

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Roberto Contini
Roberto Contini
Operante nel settore investimenti da più di 30 anni, socio fondatore della Società Italiana di Analisi Tecnica, affiliata all’IFTA dal 1988, ha ricoperto ruoli da analista tecnico e fondamentale in Italia e all’estero ed è stato per 15 anni Responsabile Investimenti prima e successivamente Responsabile Area Advisory in Banca Intermobiliare d’Investimenti e Gestioni (BIM). Skills : Asset allocation, analisi tecnica e fondamentale, Macro View, stock picking

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